GLBT: Sylvia Rivera, grande figura della comunità varia

Il 19 febbraio 2006 è ricorso l’anniversario della scomparsa di una grande figura nella storia della comunità varia: Sylvia Rivera.

Durante il “World Pride” del 2000 venne anche a Roma, invitata da Porpora (mi sembra) e dalle nostre compagne trans. Credo che fosse lei la presenza piu´ importante, dal punto di vista storico, di tutta la manifestazione. Anche se, all´epoca, è passata quasi inosservata.

Sylvia Rivera  chi è?
La figura di Sylvia Rivera (Radiokcentrale.it)

Ho avuto la fortuna, di conoscerla a New York, durante la commemorazione “ufficiale” del 20mo anniversario della rivolta sulla Christopher Street, di parlare con lei, di scambiare le nostre idee sul movimento, sulla comunita´, sui fatti dello “Stonewall”, sulle conseguenze che hanno scatenato… Ricordo il suo intervento, quando si alzo ‘in mezzo al pubblico e comincio’ a insultare tutti i personaggi clonati (come li chiamava) sul palchetto montato presso il Gay and Lesbian Community Services Center, sulla 13ma strada.

Con la sua voce inconfondibile, roca, chioccia, inca*zata fisiologica, urlava: “Dove cazzo stavate, voialtri fr*ci repressi, quella notte, quando noi abbiamo fatto il casino allo Stonewall Inn? Io non vi ho visti, ma vi vedo adesso, qui, tutti ben vestiti, a ricordare quello che avete fatto in quell’occasione… Siamo noi, le checche, le travestite, le puttane, che abbiamo fatto il casino, quella notte…”.

Nessuna risposta dal palco

Nessuno rispose dal palco. Nessuno intervenne dal pubblico. Sylvia se ne andò verso un finestrone per far sbollire la rabbia. Io stavo accanto a David Thorstad, sì, quello che ha scritto” Per una storia del movimento dei diritti omosessuali (1864-1935)”, e tante altre cose ancora e con il quale ho una profonda amicizia fin dal 1970. David mi stava spiegando chi fossero i vari oratori sul palco, mi staccai da lui e corsi verso Sylvia per farle i miei complimenti visto che condividevo tutto quello che aveva detto. Rimasi sorpreso, sorpresissimo, di vedere ch’ero l’unico ad avvicinarmi a lei. Dal palco gli oratori avevano ripreso a parlare e nessuno la degnava della minima attenzione. Ma lei se ne fregava. In quel momento era contenta solo che un italiano le stesse dimostrando affetto.

I diritti lgbt
Cosa c’è da dire su Sylvia Rivera (Radiokcentrale.it)

È incredibile la forza che aveva questo personaggio veramente unico! Sembrava che non ci fosse nulla capace di scoraggiarla, di deprimerla, di farla star zitta, una volta per tutte. Quello che aveva da dire lo diceva, senza peli sulla lingua e con un linguaggio aspro, aggressivo, pieno di parolacce. Di quei giorni tumultuosi attorno al 28 giugno 1989 ho una buona documentazione: ho scattato centinaia di foto al Sindaco della citta´, Edward Koch, ed al Governatore dello Stato di New York, Rudolph Giuliani, che intervennero ai festeggiamenti (come, in Italia, fanno sempre il Sindaco di Roma ed il Presidente della Repubblica, che sarebbe il corrispettivo del Governatore USA…), a tutti i partecipanti alla famosa conferenza (compresa Sylvia, of course!), e ho un servizio straordinario anche sui bagni del centro, che erano stati affrescati da Keith Haring.

Dovrei avere perfino alcune cassette audio registrate e mai sbobinate. Come sempre, le foto sono a disposizione (gratuita) di chi me le chiede, ma sarebbe una buona idea farci su una mostra, visto che si tratta di materiale prezioso e molto raro (io stesso ho potuto constatare, tornando a New York piu´ di una volta, che alcuni affreschi bellissimi sulle mura del Centro, anche di altri autori, erano ormai deteriorati irrimediabilmente).

Dopo la sua morte

Ho scritto molto su Sylvia Rivera. Quello che vi ripropongo oggi, è l’articolo che ho pubblicato su “GuideMagazine” immediatamente dopo la sua morte. A titolo di curiosità aggiungerà che, anche se e´ un episodio molto bello e che sembra ormai entrato nella sua leggenda, Sylvia non ha mai tirato una scarpa contro i poliziotti, e neanche una bottiglia di champagne (dubito perfino che lo “Stonewall” avesse champagne…). Del resto, Sylvia non ha bisogno di essere una leggenda. Le basta (e le avanza) essere storia, e che Storia!

Un protagonista della rivolta
L’IMPORTANZA D’ESSERE “SYLVIA”
(“GuideMagazine” Aprile 2002, pagg. 24-27)
Di Massimo Consoli

Certo, la vita non era stata facile, con Sylvia.

Quando aveva tre anni, ed era ancora un maschietto, sua madre si era suicidata cercando di portarselo appresso nella tomba. Poco più tardi anche la nonna cercherà di ammazzarlo, per risparmiargli una vita che già vedeva difficile.

Era nato nel Bronx, dentro un taxi parcheggiato davanti al Lincoln Hospital, il 2 luglio 1951 e si chiamava Ray Rivera Mendozza. I genitori erano di origini venezuelane e portoricane. I tratti del viso ricordavano ascendenze indie, mentre il colore della pelle faceva pensare a qualche incrocio con gli schiavi portati dall’Africa.

Queste peculiarità le permetteranno, più tardi, di relazionarsi con facilità con le varie minoranze che compongono il complicato melting pot americano.

Ormai orfano ed abbandonato a stesso, a dieci anni si trovo´ a dormire per le strade di Brooklyn o del New Jersey o del Village, finché cominciò a battere il marciapiede. Poco prima del suo undicesimo compleanno si cambiò il nome in Sylvia, e divenne una prostituta abituale della 42a strada, dove veniva rimorchiata da clienti eterosessuali che si facevano ciucciare il pisello nel retro dell’auto.

No, la vita non è stata facile per Ray Sylvia Rivera, morta il 19 febbraio 2002, alle 5,30 del mattino, al St. Vincent’s Manhattan Hospital di New York, in seguito a complicazioni dovute ad un cancro al fegato. Aveva cinquant’anni ed era uno dei simboli più importanti della comunità GLBT di New York. E di tutto il mondo.

La gloria se l’era guadagnata sul campo, quella notte tra il 27 ed il 28 giugno del 1969 partecipando alla rivolta dello “Stonewall”, il bar gay sulla Christopher Street ormai entrato nella nostra memoria storica.

«La gente dice che sono stata io a buttare la prima molotov», raccontava, «ma non è vero. Ho tirato la seconda. Qualcuno mi aveva passato una bottiglia di benzina quando qualcun altro lanciò la prima. Non sapevo che fare ed uno accanto a me mi disse: “è meglio che la tiri”, ed io l’ho fatto».

La polizia aveva l’abitudine di fare retate nei locali gay del Village. I clienti, di solito, si lasciavano perquisire, qualcuno veniva portato al distretto, il bar era multato o addirittura chiuso, e tutto ricominciava daccapo.

Quella notte le cose andarono diversamente. Forse era il caldo, forse la morte di Judy Garland (una vera e propria “icona gay”), forse un po’ più di accanimento da parte dell’ispettore Seymour Pine, o perché era una squadra speciale ad occuparsi della faccenda, fatto sta che i gay fecero una cosa che non avevano mai fatto prima: reagirono.

I “gay”? A dire il vero quelli che insorsero e dettero fuoco alla miccia furono i travestiti, le checche da strada, le drag-queens che non avevano nulla da perdere, senza uno stipendio da conservare, o una casa da difendere, o una famiglia da scandalizzare. Poi, in un secondo tempo, nei quattro-cinque giorni che seguirono e durante i quali i disordini continuarono a diffondersi per il quartiere, da tutte le strade del Village cominciarono ad affluire ed a partecipare anche i piu´ radicali, i contestatori della guerra nel Vietnam, i militanti del Black Panther Party, i beats, i politici, che assunsero subito la leadership.

Questo fatto è rimasto a lungo come una spina nel cuore di Sylvia. I “gender people” sono stati usati spesso come una specie di onda d’urto di tutta la comunità gay per aprire la strada al riconoscimento dei propri diritti, e poi messi da parte per non dare una cattiva immagine del movimento. Lei stessa fu mandata più volte in prima linea nelle manifestazioni pericolose e poi subito buttata via quando arrivavano i giornalisti: isolata, sconfessata, ignorata.

Particolarmente critici erano i gay che volevano essere assimilati al resto della società, e le lesbiche intransigenti. Quest’ultime erano le più feroci. Per loro, i transgender presentavano un’immagine falsata, stereotipata, della donna, e poi continuavano a godere dei vantaggi dell’essere, alla fin fine, sempre dei maschi.

Nel febbraio del 1970 Sylvia si unì alla Gay Activists Alliance e partecipò alle battaglie per far passare una legge contro le discriminazioni nella città di New York. Fu l’unica persona arrestata in quell’occasione, il che dimostra quanto impegno ci mettesse. Ad un certo punto, durante un meeting dei Democratici, colpi´ al capo uno degli speaker che si rifiutava perfino di leggere la sua petizione, con il clipboard che la conteneva. Si trattava di Carol Greitzer, consigliere comunale eletta nel Greenwich Village che, dopo quella botta, evidentemente rinsavì e divenne la prima firmataria di quella stessa petizione. Un’altra battaglia fu condotta contro il “Village Voice”, che si rifiutava di pubblicare gli annunci e la pubblicità gay. È sintomatico notare che, quando il settimanale fu convinto a cambiare politica, da giornaletto di quartiere divenne, in pochi anni, una delle pubblicazioni culturali e di costume più autorevoli (e più vendute) di tutti gli Stati Uniti. Il Greenwich Village era, ed e´, un quartiere con un numero enorme di iniziative e strutture e attività culturali e con la piu´ alta densita´ di popolazione GLBT del mondo.

Una serie infinita di manifestazioni

Impossibile ricordare qui la serie infinita di manifestazioni che hanno visto Sylvia sempre e immancabimente in prima fila, molto spesso come organizzatrice, con una forza del carattere straordinaria: una combattente coraggiosa, e con la generosità di un cuore che batteva veramente per tutti.

Ho avuto la fortuna di conoscerla finalmente di persona nell’estate del 1989, durante i festeggiamenti per il 20° anniversario dello “Stonewall”.

Il Gay and Lesbian Community Services Center aveva organizzato un meeting, Revolution Recalled, al quale partecipavano alcuni partecipanti ai disordini del 1969 ormai diventati personaggi importanti nel movimento.

Ad un certo punto Sylvia insorse contro di loro, aggredendoli con la sua proverbiale violenza: «La scintilla della rivoluzione», cito a memoria, «l’abbiamo iniziata noi checche, travestiti e puttane. Dove stavate voi, ch’eravate nascosti allora, e venite a raccogliere gli allori adesso, di una rivolta della quale non avete alcun merito?»

La più grande delusione la ebbe il giorno in cui il movimento gay decise di escludere pubblicamente travestiti, transessuali e transgender dall’agenda delle rivendicazioni, allo scopo di presentare un’immagine “pulita” e “rispettabile”. Fu una lezione che non dimenticò più.

Aveva sofferto tanto, in gioventù, che proprio ai giovani trans dedicò la parte migliore di se stessa. Insieme a Marsha P. Johnson aprì la STAR House (Street Transvestite Action Revolutionnaires), allo scopo di difendere i diritti della sua comunità e provvedere ai servizi sociali. L’attività principale consisteva nel dare un tetto ed un letto alle giovani checche senza casa nè lavoro, e poi nell’assisterle in una vita che, poteva testimoniarlo di persona, le vedeva morire presto per una coltellata, una overdose, una stronzata qualsiasi…

Per marcare questa sua difesa di una minoranza discriminata all’interno di un’altra minoranza, nel giugno del ’94 si mise alla testa di un contingente di manifestanti che non era stato accettato dagli organizzatori del Gay Pride di quell’anno. Il motivo del contendere era dovuto all’esclusione degli amanti dei ragazzi dalla parata ufficiale. I gay assimilazionisti non volevano marciare accanto a quelli del NAMBLA (North American Man Boy Love Association) così, per un po’, le due anime del movimento andarono ognuna per conto suo, finchè finirono per riunirsi pacificamente.

Le delusioni, le discriminazioni, la spinsero più volte al suicidio. Attraversò lunghi periodi senza casa per se stessa, senza un lavoro, costretta a dormire in scatole di cartone e a vivere di accattonaggio e piccoli furti.

«Abbiamo liberato il vostro mondo», gridava contro gli assimilazionisti, «perché ci lasciate sempre in fondo all’autobus?»

Negli ultimi tempi aveva fatto parte di numerose organizzazioni umanitarie. Ormai entrata nella storia, era diventata un punto fisso di riferimento.

La Metropolitan Community Church di New York, la più autorevole chiesa GLBT degli Stati Uniti, l’aveva voluta direttrice dei servizi alimentari: una sorta di “Caritas” (ma questa apertamente gay) americana che distribuisce cibo e fornisce assistenza a tutti i disperati della metropoli.

Poche ore prima della morte aveva ricevuto una delegazione dell’Empire State Pride Agenda (ESPA), per negoziare l’inclusione dei diritti trans nel disegno legislativo pendente presso il Comune di New York.

Costretta a letto, attaccata a tubi e monitor che le permettevano di sopravvivere ma soffrendo dolori atroci, era determinata a non permettere che i gay perbenisti vincessero questa battaglia una volta di piu´ sulla pelle dei/delle trans, insistendo per una revisione del linguaggio e per un piu´ concreto sostegno da parte dell’ESPA.

Sylvia era ormai diventata la coscienza della comunità varia, richiedendovi l’inclusione di tutti, ed il rispetto per tutti, al suo interno. Considerata con fastidio, con disprezzo e apertamente osteggiata da quella stessa comunità nella quale avrebbe dovuto sentirsi più sicura, Sylvia tenne sempre in mente il consiglio ricevuto dall’amica Marsha P. Johnson, anch’essa trans afro-americana: “Non ci far caso, ragazza. Trattali sempre allo stesso modo e vai avanti con l’affare che stai trattando”.

Secondo le sue volontà, il funerale ha avuto inizio la notte del 26 febbraio davanti al vecchio “Stonewall Inn”. La sua più cara amica, Julia Murray, ne portava le ceneri in grembo, seduta da sola nella carrozza nera tirata da un cavallo bianco e guidata da un cocchiere in abito da sera. Il corteo si e´ poi diretto verso la Christopher Street in direzione ovest, preceduta da un portabandiera, da vari danzatori ed una banda musicale, fermandosi davanti all’Hudson, dove una parte delle sue ceneri e´ stata gettata in acqua, insieme ad un bouquet di fiori.

Questo articolo è stato reso possibile grazie alla collaborazione di David Thorstad e William K. Dobbs.

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